La dipendenza dal web

Fonte: Aiart La Parabola


Pubblicato il 22/01/2015

Di Claudia Di Lorenzi - Fonte wwwaiart.org
Introduzione
L’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni ha visto la diffusione di tecnologie e dispositivi che hanno cambiato profondamente il modo di comunicare e relazionarsi fra gli individui. Ciò che generalmente viene sperimentato, e che alimenta la diffusione e l’uso di tali strumenti, consiste in un amplificarsi delle potenzialità dell’individuo che trova in Internet e nei dispositivi tecnologici e digitali degli insostituibili “facilitatori”. Navigando fra le autostrade del World Wide Web l’utente acquisisce facilmente informazioni e conoscenze prima accessibili solo attraverso una ricerca articolata, lunga e talvolta assai complessa: in molti casi, nell’era pre-Internet, quei “dati” non sarebbero mai stati raggiunti. Inoltre, la Rete, anche grazie alla diffusione recente dei social network, ha accorciato le distanze fra gli individui facilitando la comunicazione interpersonale, ora più accessibile, rapida e frequente: col passare del tempo i network digitali, come i sistemi di messaggistica immediata, hanno offerto alle persone ulteriori piattaforme di relazione, facilitando l’instaurarsi e l’intensificarsi degli scambi. Tutto ciò ha avuto ripercussioni concrete pressoché in ogni sfera dell’agire umano, al punto che oggi la maggior parte delle attività - dall’intrattenimento, allo studio, al lavoro - si può svolgere sia offline che online.
Tuttavia, parallelamente alla diffusione di Internet e delle new technologies, si è assistito alla comparsa di forme di abuso talvolta talmente gravi da sfociare nella dipendenza, compromettere il benessere psichico e fisico dell’individuo, ed incidere negativamente nella sfera delle relazioni sociali e familiari, nei contesti lavorativi e sul piano economico. Il facilitatore si è così trasformato in un fattore di disturbo, un ostacolo, una tossina.
Si parla al riguardo di “dipendenze tecnologiche”, una porzione della famiglia delle cosiddette “nuove dipendenze”, o “new addictions”, ad indicare quelle che non sono legate ad una sostanza ma a comportamenti e attività lecite e socialmente accettate. Pensiamo anzitutto alla dipendenza da Internet che si declina in forme molteplici a seconda che sia generica o specifica, e chiama in causa in particolare i social network, le chat, il gioco d’azzardo online, i siti pornografici, i giochi di ruolo, lo shopping e il trading online, la ricerca eccessiva di informazioni. Ma anche alla dipendenza dalle apparecchiature digitali come cellulari, smartphone, tablet, computer, pc portatili e playstation.
Condizioni che – anche grazie al proliferare di studi scientifici - un numero crescente di psicologi e psichiatri definisce come vere e proprie patologie, anche se la comunità scientifica al momento non si è ancora espressa in modo unanime. L’interrogativo di fondo è il seguente: è l’abuso della Rete che genera patologie, o le varie forme di dipendenza da Internet si sviluppano a partire da un substrato già patologico e ad esso danno espressione? Certamente alcuni individui presentano caratteristiche psicologiche che predispongono allo sviluppo di una dipendenza da Internet, ma è anche possibile che in assenza del comportamento di abuso tali potenzialità “negative” restino latenti e dunque inespresse. Per il momento l’ultima edizione aggior- nata del DMS, il più diffuso Manuale Statistico-Diagnostico dei disturbi psicologici e psichiatrici, ovvero il punto di riferimento più accreditato per tutta la comunità scientifica internazionale, cita solo l’“Internet Gaming Disorder”, ovvero i disturbi indotti dal gioco online, trascurando tutte le altre forme di dipendenza dalla Rete. Inoltre, l’Internet Gaming Disorder è descritto non come una patologia “ufficiale”, ma solo come una “condizione che richiede ulteriori studi”. Tuttavia le emergenze scientifiche in favore della diagnosi di vere e proprie patologie indotte dall’abuso di Internet sono crescenti e si parla di una potenzialità psicopatologica plurima propria della Rete. Ma andiamo con ordine.
La letteratura scientifica sul tema: dai primi studi alle acquisizioni recenti

Il primo studioso che parlò di Internet Addiction Disorder (IAD) fu, nel 1995, uno psichiatra della Colombia University di New York, il Dr. Ivan Goldberg (Goldberg, 1995) che indicò i criteri diagnostici utili al riconoscimento del disturbo e propose di introdurre la nuova sindrome proprio nel DSM. Secondo Goldberg la presenza di almeno tre dei seguenti criteri, nell’arco temporale di un anno, identifica l’esistenza di un disagio clinicamente significativo indotto dall’abuso di Internet:
• il bisogno di aumentare progressivamente la quantità di tempo trascorso in Rete per ottenere la stessa soddisfazione iniziale, che pian piano si va affievolendo;
• la difficoltà ad esercitare un’azione di controllo sul tempo trascorso online, rispetto alle intenzioni iniziali;
• l’interruzione (o la riduzione) dell’uso prolungato di Internet causa
– nei giorni successivi all’interruzione del comportamento e fino ad un mese – sintomi come agitazione psicomotoria, ansia o pensiero ossessivo circa ciò che sta accadendo in Rete, fantasie o sogni su Internet, movimenti volontari o involontari di battitura a macchina con le dita;
• i sintomi di astinenza dal web vengono alleviati facendo nuovamente ricorso alla Rete;
• interruzione o riduzione significativa di attività sociali, lavorative o ricreative a causa dell’uso di Internet;
• utilizzo della maggior parte del tempo in attività correlate con Internet (acquisto di libri on line, ricerca di nuovi siti, creazioni di file, ecc.);
• l’uso di Internet continua nonostante la consapevolezza che esso induca persistenti o ricorrenti problemi fisici, sociali, occupazionali o psicologici, come perdita del sonno, difficoltà coniugali, ritardi negli appuntamenti del primo mattino, negligenza nei doveri professionali e sentimenti di abbandono.
Va detto che Goldberg inizialmente intese i suoi lavori e la sua proposta come una provocazione rivolta alla comunità scientifica, e non si aspettava di ricevere dai suoi colleghi l’interesse e l’apprezzamento che invece gli fu manifestato: codificando per la prima volta l’IAD aveva dato riconoscimento e voce al disagio di migliaia di persone e aperto il dibattito scientifico sulle modalità di diagnosi, prevenzione e cura.
Ne seguirono numerosi studi, fra cui quelli pioneristici della statunitense Kimberly Sue Young, docente di Psicologia all’Università di Pittsbourgh, in Pennsylvania, oggi riconosciuta fra i massimi esperti mondiali del fenomeno. Già nel 1995 la studiosa fondava nella città di Bradford il primo “Center for Internet Addiction”, e nel 1996 diede il primo riconoscimento ufficiale al disturbo, proponendone i criteri dia- gnostici nel corso di un intervento al 104.mo meeting annuale della American Psychological Association, a Toronto, in Canada (K.S. Young, 1996).
Per l’occasione la studiosa presentò i risultati di uno studio che metteva in luce l’uso differente che fanno della Rete soggetti dipendenti e non-dipendenti. Secondo l’indagine, i 396 soggetti dipendenti presi in esame trascorrevano online un quantitativo di tempo otto volte superiore rispetto ai 100 soggetti non-dipendenti con cui erano stati confrontati. Inoltre i primi presentavano un incremento progressivo del tempo di collegamento, coerentemente col fenomeno di tolleranza che si presenta nelle tossicodipendenze. Un’ulteriore differenza tra i due gruppi era rintracciabile nelle attività svolte in Rete: i dipendenti facevano un uso maggiore delle chat-room e dei giochi di ruolo virtuali mentre i non-dipendenti usavano prevalentemente il servizio di posta elettronica e la ricerca di informazioni. Tuttavia l’elemento che più distingueva i due gruppi risiedeva nella ricaduta dell’uso di Internet sulla vita quotidiana: mentre per i non dipendenti la Rete costituiva una risorsa, per i dipendenti essa sembrava causare una serie di interferenze rintracciabili in diversi ambiti della sfera personale.
Fu Kimberly Young a precisare anche il primo programma di cura delle dipendenze da Internet, elaborato su basi empiriche e di comprovata efficacia rispetto a diverse forme della patologia, e ad elaborare il questionario diagnostico IAT (K.S. Young, 1998) - composto da 20 domande - che rintraccia l’esistenza del disturbo laddove sono presenti almeno cinque fra i seguenti sintomi:
• pensare ad Internet anche quando non si è online e/o anticipare la prossima sessione di collegamento;
• sentire il bisogno di usare Internet per un tempo sempre più prolungato al fine di raggiungere la stessa soddisfazione;
• sforzarsi senza successo di controllare, ridurre o interrompere l’uso di Internet;
• sentirsi inquieti, lunatici, depressi o irritabili quando si tenta di ridurre o interrompere l’uso di Internet;
• rimanere on-line più a lungo di quanto originariamente previsto;
• mettere a repentaglio o rischiare di perdere una relazione affettiva o di lavoro, e occasioni di formazione o di carriera a causa di Internet;
• mentire ai familiari, al terapeuta, o ad altri per nascondere l’entità del problema, ovvero quanto tempo si trascorre su Internet;
• usare Internet come uno strumento per fuggire dai problemi o per alleviare sentimenti di impotenza, colpa, ansia, depressione.
La studiosa individuava anche altri sintomi correlati ai precedenti, fra cui una intensa sensazione di euforia mentre si è coinvolti in attività su Internet; sentimenti di colpa, vergogna, ansia, o depressione dovuti al comportamento di abuso; conseguenze fisiche come l’aumento o la perdita di peso, mal di schiena, mal di testa, sindrome del tunnel carpale; la rinuncia ad altre attività piacevoli.
A conclusioni diverse giunse Viktor Brenner, che condusse un’inchiesta online su un campione di 185 persone (Brenner, 1996). L’Autore scoprì che l’80% dei soggetti intervistati presentava almeno cinque dei segni d’interferenza dell’uso di Internet nel funzionamento della vita quotidiana, tra cui incapacità di amministrare il tempo, perdita del sonno e dei pasti, etc., e che circa il 17% utilizzava Internet per più di 40 ore settimanali, con una media che sfiorava le 6 ore al giorno. Per effettuare tali rilevazioni Brenner aveva elaborato un questionario ad hoc, l’Internet Usage Survey, che costituiva il primo tentativo di valutazione degli effetti psicologici indotti dall’uso di Internet. Sulla base dei risultati raccolti, l’Autore concluse “normalizzando” i segni di interferenza rilevati nella maggior parte dei soggetti, e ridimensionando il potenziale patogeno della Rete.
L’osservazione di comportamenti patologici nell’uso del web trovò sostegno negli studi condotti dall’inglese Mark Griffiths (1997), i quali mostrarono che le dipendenze da prodotti tecnologici, tra cui Internet, condividono con le dipendenze da sostanze sei caratteristiche essenziali:
• la “dominanza”, secondo cui l’attività o la droga dominano i pensieri e il comportamento del soggetto, assumendo un valore primario tra tutti i suoi interessi;
• “alterazioni del tono dell’umore”, che vedono l’inizio dell’attività o l’assunzione della sostanza provocare cambiamenti nel tono dell’umore, come un aumento di eccitazione o una maggiore rilassatezza come diretta conseguenza dell’incontro con l’oggetto della dipendenza;
• la “tolleranza”, che porta al bisogno di aumentare progressivamente la quantità di droga o l’attività per ottenere l’effetto desiderato;
• “sintomi d’astinenza” fra cui malessere psichico e/o fisico che si manifesta quando s’interrompe o si riduce il comportamento o l’uso della sostanza;
• “conflitto”, ad indicare che il comportamento dipendente genera conflitti interpersonali tra il soggetto e coloro che gli sono vicini, e conflitti intrapersonali interni al soggetto stesso;
• “ricaduta”, che identifica la tendenza a ricominciare l’attività o l’uso della droga dopo averla interrotta.
Corposa è poi la letteratura sul tema che proviene dall’Asia, ed in par- ticolare da Corea e Taiwan, dove il fenomeno ha fatto la sua prima comparsa ed ha interessato vasti strati della popolazione.
In Italia, il primo ad occuparsi dell’impatto della tecnologia digitale sulla mente umana è stato lo psichiatra Tonino Cantelmi, che introdusse l’espressione IPR, Internet Related Patology, per definire una serie di disturbi appartenenti alla categoria delle patologie correlate all’uso di Internet, come la dipendenza da gioco d’azzardo on line, da cyber- relazioni e da una quantità eccessiva d’informazioni. Cantelmi è autore insieme a Massimo Talli del primo articolo sul tema apparso in Italia, pubblicato dalla rivista scientifica “Psicologia Contemporanea” (Cantelmi, Talli, 1998): qui “l’lnternet Addiction Disorder (IAD) è definito come “una dipendenza concreta” che “provoca problemi sociali e relazionali, una sorta di patologia caratterizzata da sintomi che potremmo definire astinenziali e problemi economici. Se all’inizio l’utente avverte solo il bisogno di aumentare il tempo trascorso a navigare in Rete, con il passare del tempo s’instaura, in modo subdolo, la consapevolezza di non poter più riuscire a sospendere, o quanto meno ridurre, l’ uso di Internet”.
I lavori di Cantelmi stimolarono numerosi studi e pubblicazioni sullo IAD, e oggi esiste una nutrita letteratura anche di matrice italiana sul tema. Secondo lo psichiatra Vincenzo Caretti (Caretti, 2000), la dipendenza patologica da computer sarebbe solo la prima fase di un distur- bo assai più grave: Caretti parla di “Trance Dissociativa da Videoter- minale”, una forma di dissociazione collegata ad una dipendenza patologica dal pc e dalle sue molteplici applicazioni che è caratterizzata, durante o dopo un lungo collegamento in Rete, da alterazioni temporanee dello stato di coscienza, depersonalizzazione e sostituzione del senso dell’identità personale con una identità alternativa. Alcune caratteristiche specifiche di Internet, quali l’anonimato e l’assenza di vincoli spazio-temporali, offrono all’individuo la possibilità di vivere un’esperienza simile al sogno: tali esperienze finiscono per assumere un ruolo dilagante nella vita del soggetto e quest’ultimo viene catturato dal gioco o dall’attività informatica a cui si dedica fino al punto di perdere il controllo di sé e della situazione. Secondo l’Autore si tratta di una condizione difensiva che nasce da una psicopatologia pregres- sa, come per esempio la fobia sociale.
In Italia sono sorti negli ultimi anni anche centri di diagnosi e cura dello IAD, fra cui l’ambulatorio guidato dallo psichiatra Federico Tonioni, presso il Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma, che si occupa prevalentemente di adolescenti e delle loro famiglie. “I no- stri giovani pazienti passano connessi ad Internet tutto il tempo disponibile – racconta il Dr. Tonioni in una intervista disponibile online - hanno nella maggior parte dei casi compromesso il proprio iter scolastico o universitario, presentano stati dissociativi prima rispetto al corpo fisicamente inteso e poi a carico della propria identità, e manifestano un incremento dell’ideazione paranoidea, una difficoltà specifica nel vivere le emozioni e quindi la comunicazione non verbale, fino ad un progressivo ritiro sociale”. Rispetto ai fenomeni dissociativi connessi all’uso di Internet Tonini evidenzia che essi si correlano con maggiore frequenza a specifiche attività svolte in Rete: “tutto ciò che nel web veicola emozioni è molto più dissociante. Quando io veicolo informazioni, ovvero scrivo su Internet, controllo la mia posta elettronica o faccio altro a livello cognitivo, non a livello emotivo, mi accorgo del tempo che passa, mi stanco, voglio fare altro e il mio Io è vigile, non sono dissociato dalla realtà, e mi accorgo anche del tempo che passa. Se invece vado a veicolare emozioni, come quando gioco online, vado sui social network o chatto, o passo da un link all’altro di una cosa che mi emoziona, come può essere il video di una canzone su you-tube, allora mi dissocio, non sono concentrato ma assorto, mi devono chiamare due volte, mi ridesto sempre seccato, e soprattutto mi rendo conto che anziché mezzora è passata un’ora”. Sulla eziologia del disturbo, nel suo “Quando Internet diventa una droga” (2011), Federico Tonioni spiega che la dipendenza da Internet “ha una genesi complessa, spesso multifattoriale che si sviluppa in un contesto di sostanziale infelicità, una sorta di depressione mascherata, che si appropria di atteggiamenti compulsivi, e che porta ad un progressivo ritiro sociale. Genericamente si potrebbe definire una malattia delle emozioni, o meglio della comunicazione emotiva. I suoi presupposti si radicano nella mancanza di continuità nel vissuto affettivo che lega ogni bambino all’ambiente in cui è chiamato a crescere”.
Proprio in Italia si è tenuto il primo Congresso Internazionale sugli “Internet Addiction Disorders”, promosso a Milano, nel marzo 2014, dall’ ESC Team. Nel corso del convegno decine di studiosi di tutto il mondo hanno cercato di mettere a punto gli aspetti epidemiologici, patogenetici, diagnostici e terapeutici della dipendenza dalla Rete. Si è parlato dei fenomeni dissociativi indotti dalla Rete; della correlazione fra dipendenza da Internet e depressione, impulsività e tratti di auti- smo; della scarsa percezione fra i giovani dei comportamenti dannosi assunti sul web e della necessità di promuovere un uso critico della Rete. Si è poi evidenziato che l’uso eccessivo di Internet rende le relazioni “mono-corporee” e porta a perdere la percezione della fisicità re- lazionale. Non è mancato un approfondimento sul gioco d’azzardo on-line, né un’ampia discussione sulle modalità di prevenzione e cura. Un’analisi globale quella affrontata dagli esperti intervenuti al Congresso, che hanno riservato particolare attenzione agli adolescenti, sempre più esposti al rischio di IAD per il loro status di nativi digitali.
In definitiva, ciò che emerge dal dibattito scientifico degli ultimi anni descrive il cyberspazio come un luogo in cui l’individuo può “sperimentare una condizione virtuale di onnipotenza, legata sia al superamento dei normali vincoli spazio-temporali, sia, e soprattutto, alla possibilità di esplorare differenti aspetti di Sé” (Siracusano, Peccarisi,
1997). In questa prospettiva Internet si presta come “contenitore” delle proprie emozioni, uno schermo bianco dove proiettare pulsioni e fantasie, un contesto relazionale nel quale agire i propri schemi comportamentali tradizionali o sperimentarne di nuovi. In altre parole, il cyberspazio può essere inteso anche come un’estensione del mondo psichico individuale, il terreno ideale per esprimere fantasie inconsce, esplorare differenti aspetti della propria identità e dare spazio a impulsi, condotte trasgressive-regressive, ansie e frustrazioni. Dinamiche che spiegherebbero fenomeni molto comuni in Rete che hanno a che fare con la sessualità, l’aggressività e l’assunzione di identità diverse.
Su Internet l’individuo può dunque costruire un universo virtuale parallelo dove dare corpo ad una nuova immagine di sé, percepita come più gratificante, positiva e funzionale di quella reale: la realtà virtuale prende il sopravvento e l’identità si fa incerta. Tali dinamiche possono indurre uno stato temporaneo di coscienza alterata che alcuni autori assimilano al sogno.
Non di rado tuttavia, questi processi nascondono disagi personali profondi, e la Rete si configura come uno strumento per superare o occultare la sofferenza psichica e la consapevolezza dei propri stati interiori. Secondo alcuni autori (Caretti, 2000) l’abuso di Internet potrebbe essere considerato anche come coresponsabile di importanti fenome- ni dissociativi, quali la depersonalizzazione e la diffusione dell’identità, che accostano le condotte on-line al terreno delle psicosi.
Infine, mentre è difficile argomentare la possibilità che Internet sia in sé patogena, è più corretto dire che l’esposizione protratta agli innumerevoli stimoli della Rete può, in alcuni casi, fungere da “stressor” aggiuntivo in soggetti  predisposti.
Varie tipologie di dipendenza dalla Rete
Come emerge dalla breve rassegna sopra illustrata, fin dai primi studi è apparso chiaro che la dipendenza da Internet potesse esprimersi in forme variegate. Si distingue anzitutto fra una dipendenza generalizzata, che descrive un sovrautilizzo multifunzionale della Rete, e una specifica, legata invece a funzioni e applicazioni. Di seguito le più diffusione declinazioni della dipendenza da Internet.
Dipendenza dalle relazioni virtuali

La socialità in Internet è senza dubbio uno degli aspetti più affascinanti e coinvolgenti. Tuttavia accade talvolta che il bisogno di instaurare relazioni amicali o amorose con persone incontrate online porta a tra- scurare le relazioni reali, a scapito dei rapporti di amicizia e di quelli familiari: progressivamente il soggetto si isola e finisce per rinchiudersi in un mondo parallelo popolato da persone idealizzate (Cesare Guerreschi, 2005). I criteri che identificano il disturbo sono i seguenti: bisogno di passare molto tempo in Rete per instaurare relazioni amicali e/o sentimentali; perdita di interesse nei confronti delle relazioni amicali e/o sentimentali reali (offline); tentativi ripetuti e falliti di controllare, ridurre o interrompere il protrarsi degli scambi online. In genere i “cyber relational addicts” trascorrono il loro tempo in Rete utilizzando email, social network, chat e newsgroup. Se adulto, il soggetto può arrivare ad estraniarsi dal reale al punto tale da trascurare i suoi oneri domestici - come nel caso di madri che dimenticano di andare a prendere i figli a scuola o preparare loro da mangiare – oppure intra- prendere sul web relazioni virtuali che poi si concretizzano in vere e proprie relazioni extraconiugali.
Dipendenza dal sesso virtuale
La dipendenza da sesso virtuale, è uno dei disturbi più diffusi tra coloro che presentano già una dipendenza da Internet. Essa consiste nella la ricerca ossessiva - compulsiva di instaurare una relazione sessuale con individui conosciuti in Rete. Queste le attività più diffuse: visio- nare e/o scaricare materiale pornografico; leggere e scrivere lettere o storie, scambiare e-mail o annunci per incontrare partner sessuali; impegnarsi online in relazioni amorose interattive con persone dello stes- so sesso o del sesso opposto; entrare a far parte di chat erotiche dove parlare di sesso; praticare attività erotiche o autoerotiche via webcam; dopo una prima fase di relazione virtuale, concordare e realizzare incontri reali a sfondo sessuale.
I dipendenti da cyber-sex, sono ossessionati da pensieri sessuali e spinti a compiere atti che possono soddisfare i loro pensieri e le fantasie legate a materiale pornografico o a immagini hard scaricate o visionate in Rete. Le persone affette da questa dipendenza sono spesso persone timide, riservate, problematiche nella relazione con l’altro sesso, totalmente inesperte o insoddisfatte del proprio aspetto fisico: l’intermediazione del computer e la possibilità di non essere visti e di interagire con sconosciuti consente loro di superare insicurezze, inibizioni e sentimenti di vergona, e di agire fantasie e pensieri repressi. Proprio l’anonimato – secondo Kimberly Young – è una delle caratteristiche della realtà virtuale che favorisce lo sviluppo della dipendenza dal sesso online. Le altre – secondo il modello “ACE” elaborato dalla studiosa – sono la “convenienza”, in quanto si può attingere al sesso online anche da casa, e l’”evasione”, in quanto l’esperienza sessuale in Rete permette all’individuo di abbandonarsi ad sorta di fuga mentale e di evasione dai problemi della vita quotidiana. Al riguardo, si pensa che sia proprio questa fuga mentale, piuttosto che la gratificazione sessuale, a fare da rinforzo al comportamento e a favorire la ripetizione dell’esperienza.
La dipendenza dal sesso virtuale, comporta gravi conseguenze sia nella vita di chi ne è dipendente sia in quella delle persone che lo circondano. La costruzione di un personaggio che occulta la vera identità del soggetto e l’espressione disinibita di fantasie erotiche portano l’utente a vivere una realtà parallela più gratificante (almeno in apparenza) e a sostituirla a volte a quella reale. Ad essere colpito in questi casi è soprattutto il rapporto con il coniuge: la dipendenza dal sesso online provoca litigi, distanza affettiva, tensioni, senso di abbandono. I partner dei dipendenti vivono una condizione di co-dipendenza: si sentono feriti, sessualmente inadeguati, poco attraenti o sgradevoli, rifiutati e insoddisfatti; perdono autostima e provano sentimenti di rabbia. Talvolta cercano di intervenire per contenere la dipendenza dell’altro. Non di rado tali dinamiche hanno un impatto significativo anche sui figli, che vengono lasciati soli da genitori concentrati sui loro disturbi e sulle dinamiche di coppia, ed esposti a tensioni e litigi. Accade che i minori siano esposti alla visione di materiale pornografico, e che questa espo- sizione precoce possa interferire con lo sviluppo futuro di relazioni affettive sane ed equilibrate.
Per Kimberly Young, la dipendenza da sesso virtuale è uno dei disturbi più diffusi tra coloro che sono dipendenti da Internet. Secondo una ricerca di Cooper (1998), il rapporto di uomini dipendenti da cybersex rispetto alle donne è di 5 a 1, anche se il coinvolgimento delle donne è in crescita. L’autore spiega che gli uomini si collegano principalmente per guardare foto e video pornografici, mentre le donne sono più inte ressate alle chat erotiche, in quanto amano parlare di sesso e cercano di interagire con i “partner virtuali”.
Dipendenza da cyber pornografia
Il passaggio dalla pornografia “cartacea” a quella in Internet, ha aumentato le possibilità di appagare “desideri sessuali compulsivi”, fino ad alimentare nuove patologie. Rispetto alla dipendenza dal sesso on- line, nella cyber-porn addiction l’interattività è completamente assente, in quanto la persona è sola con lo schermo e le immagini impresse su di esso: il soggetto dipendente ricerca in maniera ossessiva e compulsiva l’appagamento sessuale tramite la fruizione di immagini e video pornografici on-line. Un comportamento che se da un lato alimenta eccitazione, senso di onnipotenza ed evasione, dall’altro si accompagna a repulsione, disagio, vergogna, senso di colpa e malessere, e alla consapevolezza di essere schiavi di un meccanismo che toglie la libertà.
La persona dipendente, in genere, è incapace di controllare, limitare o sospendere la fruizione di materiale pornografico; trascorre molte ore al computer ricercando immagini e video che possano offrire eccitazione o gratificazione sessuale, ma è passiva, non libera d’immaginare, poiché il materiale pornografico che visiona si appropria delle sue fantasie, le invade e alimenta immagini stereotipate. Anche qui si tratta di un’esperienza consumata in silenzio e in solitudine, ma in grado di interferire sulla capacità dell’individuo di avere relazioni sane e di portare a termine un rapporto sessuale nella realtà, come anche di intaccare i rapporti di coppia, in quanto la ricerca compulsiva del piacere attraverso l’autoerotismo può portare alla diminuzione del desiderio sessuale verso il proprio partner. Il piacere sessuale, associato esclusivamente a materiale pornografico, può favorire la tendenza a considerare persone dell’altro sesso esclusivamente come “corpi pornografici”. Il dipendente ha infatti grosse difficoltà a vivere nella dimensione reale, concentrarsi sul lavoro, instaurare rapporti di amore e amicizia, e sperimenta un calo significativo dell’autostima. Si tratta di individui che mostrano spesso una semiimpotenza, o impotenza totale, nell’atto sessuale con una donna reale.
L’osservazione clinica individua alcuni fattori che possono favorire lo sviluppo di una dipendenza da materiale pornografico online. Si tratta di patologie pregresse, come la depressione o disturbi ossessivo – compulsivi; di condotte rischiose, come quelle di chi progressivamente si sottrae ad esperienze di vita e relazioni reali; oppure ancora di eventi di vita dolorosi o sfavorevoli come problemi in ambito familiare o lavorativo. Ad aumentare le probabilità che il soggetto sviluppi una cyber-porn addiction intervengono poi i fattori che caratterizzano la Rete, tra cui l’anonimato e l’estrema facilità nell’accesso ai servizi.
Rispetto all’impatto sulla famiglia, Guerreschi spiega che la dipendenza dal cyber-porn porta in alcuni casi all’annullamento dei rapporti sessuali con il proprio partner e alla perdita delle componenti sessuali e affettive della relazione: il dipendente è distaccato e isolato, sfrutta ogni momento libero per collegarsi alla Rete, non ha più interesse per il mondo reale che lo circonda e nemmeno per le persone che ne fanno parte. La sua famiglia vive una situazione di co-dipendenza: la scoperta del problema può avere conseguenze emotive molti forti, come shock, vergogna e confusione, e attivare strategie di controllo e contenimento che risultano controproducenti. Si instaura spesso una relazione genitore-bambino, che genera risentimento nel dipendente, che continua a mentire. Per i figli, la conseguenza più frequente, anche in questo caso, si riflette sulla riduzione di attenzione e cure. Anche qui, può accadere che i figli prendano visione del materiale pornografico, ne rimangano sconvolti, provino imbarazzo e si arrabbino con il genitore perdendo il rispetto nei suoi confronti. Tali esperienze aumentano la probabilità che questi bambini fruiscano di materiale pornografico durante l’adolescenza. La fruizione di materiale pornografico online può inoltre avere conseguenze economiche non trascurabili per la famiglia, in quanto l’accesso a molti siti è condizionato al pagamento di una quota tramite carta di credito.
Dipendenza dal gioco in Rete: i videogame
Tra le attività più affascinanti e coinvolgenti che si possono fare in Rete vanno citati certamente i videogiochi. Il mondo dei giochi è da sempre il mondo dei sogni, dove proiettare fantasie e desideri e dove cimentarsi in sfide mirabolanti per trovare conferma del proprio talento e delle proprie abilità. I videogiochi hanno poi un indiscusso valore educativo in quanto favoriscono lo sviluppo di abilità manuali e di percezione, abituano a gestire gli obiettivi, a prendere decisioni rapidamente e ad affrontare imprevisti e difficoltà, e poi favoriscono l’apprendimento di temi e conoscenze relative alle competizioni giocate.
Tuttavia, con lo sviluppo delle new technologies e la diffusione capillare dei dispositivi digitali, i videogiochi hanno preso sempre più spazio nella vita delle persone, giovani e adulte, a discapito di altre attività che in genere sono praticate nel tempo libero, dallo sport alla frequentazioni di amici, agli hobby più diversi. Accade così che l’attività ludica si trasforma da fattore ricreativo a elemento di disturbo: il giocatore passa sempre più tempo giocando al pc, su videoterminali o dispositivi digitali, spesso a casa, in totale isolamento, in silenzio, senza pause e con scarse condizioni di luce, compromettendo rapporti sociali e attività di studio e di lavoro.
A favorire il prodursi di questa condizione sono anche le caratteristiche specifiche del videogioco, quelle che marcano la differenza rispetto al gioco tradizionale:
• Mentre quest’ultimo favorisce la socializzazione, il gioco virtuale è vissuto in solitudine o nell’illusione di una relazione “a distanza”;
• I giochi tradizionali stimolano l’identificazione con persone reali mentre nei videogiochi si tende ad identificarsi con personaggi virtuali, spesso dotati di super poteri o di immortalità, con il rischio di una confusione fra piano virtuale e piano reale e dell’emulazione di azioni pericolose;
• Se i giochi tradizionali favoriscono il contatto fra le generazioni, quelli virtuali più spesso le allontanano;
• Mentre nei giochi tradizionali raramente è concepita la violenza, nei videogiochi essa costituisce uno degli ingredienti che suscitano maggior appeal, viene incoraggiata e premiata;
• Inoltre, nei videogiochi il meccanismo della sfida contro l’avversario risulta esasperato: il soggetto sperimenta il bisogno di dimostrare a se stesso e all’“antagonista virtuale” il proprio valore e le proprie abilità. La sconfitta porta a riscattare la propria autostima minacciata dal fallimento e a giocare ancora. Talvolta la misura del proprio valore è data dal raggiungimento di un dato punteggio che viene così rincorso in maniera spasmodica.
Particolare attenzione va dedicata ai giochi di ruolo online, che più di altri possono favorire fenomeni di sovrapposizione fra mondo virtuale e reale. Nei giochi di ruolo il soggetto si relaziona con altri utenti attraverso un “avatar”, un personaggio costruito nei dettagli e nel quale, spesso, il giocatore proietta il proprio Sé ideale. Ogni avatar ha all’interno di una comunità virtuale di giocatori un ruolo specifico e in funzione di quello deve agire e interagire con gli altri utenti. Più il giocatore è in grado di “immedesimarsi” nel personaggio e di incarnare il suo ruolo, più risulterà abile nel gioco. Più, tuttavia, rischia di idealizzare il mondo virtuale e i suoi attori e di cadere nell’alienazione.
Secondo gli esperti dell’Esc Team – come detto, promotori del primo Congresso internazionale dedicato all’IAD che si è svolto a Milano nel marzo scorso - i principali sintomi identificabili nel soggetto dipendente da Videogames sono:
• dedica moltissimo tempo a videogiocare (o lo dedicherebbe se non gli fosse impedito);
• mostra difficoltà scolastiche e lavorative: tende ad addormentarsi a scuola, sul posto di lavoro o mentre si svolge altre attività, manca di concentrazione e ha difficoltà di apprendimento;
• trascura le altre attività (hobby, studio, lavoro, sport, amicizie);
• preferisce il videogiocare piuttosto che passare il tempo con gli amici;
• mostra un ritiro dalle altre attività sociali;
• gioca di nascosto;
• tende ad essere apatico o irascibile quando non può giocare;
• si arrabbia quando viene interrotto mentre gioca, o quando gli si impedisce di giocare;
• tende ad avere pensieri e fantasie focalizzati sul gioco, anche quando svolge altre attività, rivive esperienze trascorse di gioco, valuta e pianifica le prossime giocate o escogita modi per procurarsi il denaro con cui giocare;
• cerca di procurarsi videogiochi sempre nuovi, o insiste perché glieli comprino;
• spende somme considerevoli di denaro (se ne dispone) per i videogiochi;
• presenta alterazioni o anomalie nelle abitudini (alimentazione e sovrappeso, igiene personale, funzioni fisiologiche, sonno);
• presenta sintomi fisici quali mal di testa, di schiena, dolori al collo, arrossamenti agli occhi, disturbi della vista, sindrome del tunnel carpale.
• problematiche psichiche di carattere dissociativo, riduzione della facoltà di critica o scollamento dalla realtà;
La dipendenza da videogiochi comporta fenomeni di tolleranza, per cui il soggetto è costretto ad aumentare progressivamente il tempo passato a giocare per ottenere il livello di eccitazione desiderato, e di astinenza che vede il soggetto manifestare irrequietezza, agitazione, difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno e dell’umore, tremori e pensieri ossessivi riferiti ai videogiochi, quando è impossibilitato a giocare. La dipendenza può inoltre generare stati di ansia, attacchi di panico, e suscitare la tendenza a compiere azioni “illegali” (per es. bullismo) o a mentire in famiglia e con altri per procurarsi i soldi per i videogiochi e per nascondere il grado di coinvolgimento nei videogiochi.
Secondo Guerreschi la dipendenza da videogames, è causata dello stesso meccanismo cerebrale che sottende le dipendenze da alcool o da cannabis: il divertimento diventa dipendente se il cervello è continuamente sottoposto a stimoli positivi. Questi stimoli, provocano il rilascio di maggiori quantità di dopamina nella parte anteriore del cervello, legata alla sensazione del piacere. Se questo processo viene ripetuto spesso si crea una “memoria” cerebrale legata a quello stato di piacere e la persona sarà indotta a ricercare sempre più spesso quella sensazione attraverso l’unico comportamento che è in grado di provocarla.
Dipendenza dal gioco in Rete: il gioco d’azzardo patologico

Per “gioco d’azzardo”, o Gambling, si intende quel gioco il cui risultato finale è determinato dal caso. Per la maggior parte dei casi, questa forma di intrattenimento è vissuta dal giocatore secondo modalità che, sotto il profilo psicologico-psichiatrico, potremmo definire sane ed equilibrate. Parliamo dei giocatori occasionali o di quelli costanti, e di coloro che ne fanno una professione. Tuttavia, in misura sempre crescente, il gioco d’azzardo si trasforma da esperienza ludica in una vera e propria patologia. Complice l’avvento di Internet che ha moltiplicato in misura esponenziale le opportunità di gioco e dunque di gratificazione immediata.
La scienza ufficiale ha riconosciuto il gioco d’azzardo patologico come disturbo mentale nel 1980. La nuova edizione del DSM, il Manuale Diagnostico Statistico dell’Associazione Psichiatrica Americana (APA), recentemente aggiornata, lo colloca tra le dipendenze e ne riconosce ufficialmente la “qualità” di disturbo, definendolo non più “Gioco d’Azzardo Patologico” ma appunto “Disturbo da Gioco d’Azzardo”. Rispetto al giocatore sano che cerca l’aspetto ludico del gioco, nel giocatore patologico prevale la compulsione che genera forte tensione e un bisogno incontrollato di giocare per mantenere alti i livelli di “attivazione” (arousal).
Secondo Guerreschi, è possibile distinguere i giocatori patologici in due categorie (Guerreschi, 2000): i “giocatori per azione”, che ricercano nel gioco una forma di eccitazione, giocando si sentono “vivi” e al gioco sacrificano rapporti familiari e amicali e attività sociali e lavorative; e i “giocatori per fuga”, che trovano nell’attività di gioco sollievo da sensazioni di ansia, solitudine, rabbia o depressione, e usano il gioco d’azzardo per sfuggire da crisi o difficoltà. Nel secondo caso il gioco ha un effetto “analgesico”, mentre nel primo produce una risposta euforica.
Tra i fattori predittivi dello sviluppo della patologia, diversi studi indi- cano alcuni tratti personologici come la depressione, l’impulsività e la ricerca di sensazioni forti. Mentre in generale i tratti osservabili nel giocatore d’azzardo patologico sono i seguenti:
• la mancanza di autocontrollo (che causa comportamenti impetuosi ed impulsivi),
• la bassa autostima
• il sovraccarico di stress
• la sensazione di solitudine
• la difficoltà a concentrare la propria attenzione
• ansia e irritabilità quando non si gioca e ricorso al gioco per placare la tensione
• nei casi più gravi sentimenti di angoscia e disperazione, spesso associati condizioni di perdite economiche significative e indebitamento dovuto alle perdite al gioco
Come anticipato, il Gambling online si distingue dal gioco d’azzardo offline per alcuni aspetti specifici che alimentano il rischio di dipendenza:
• la maggiore accessibilità al gioco offerta da Internet - a cui ci si può collegare stando seduti a casa propria o in qualunque luogo e a qualunque ora - e l’aumento smisurato di casinò virtuali e siti di giochi on line, aumentano la probabilità di ottenere gratificazioni immediate e invogliano a giocare e a prolungare le sessioni di gioco;
• collegandosi da casa il giocatore on line può controllare la propria privacy, agire di nascosto e limitare l’esposizione al giudizio altrui soprattutto in caso di perdita;
• la rapidità tipica dei giochi online ostacola il controllo razionale sul gioco e la valutazione razionale delle reali possibilità di vincita: più rapida è la sequenza con cui è possibile puntare o scommettere e più difficilmente l’individuo riesce ad attivare le funzioni cognitive tese alla razionale valutazione del rischio e delle conseguenze del gioco;
• il gioco online ritarda la presa di coscienza circa l’esistenza di un disturbo: giocando da casa o in solitudine, e non dovendosi scontrare con la realtà in modo diretto, il giocatore on line può attuare processi di negazione che consentono di non prendere coscienza della propria dipendenza.
Infine, va sottolineato che in Italia la mancanza di leggi sufficientemente restrittive e l’incoraggiamento al gioco che proviene dalla pubblicità del gioco d’azzardo costituiscono fattori ambientali che non favoriscono il contenimento del fenomeno.
Dipendenza da commercio compulsivo in Rete: il trading online
In comune col gioco d’azzardo patologico ha quel mix di eccitazione e di angoscia che porta il soggetto dipendente a “scommettere” sul buon esito delle sue operazioni, ma mentre il primo è più facilmente riconoscibile, la dipendenza dal “gioco” in Borsa, il trading online, resta ad oggi un fenomeno poco conosciuto, difficilmente individuabile e meno soggetto a riprovazione sociale. Elementi che ne favoriscono la diffusione.
Rispetto ai meccanismi d’azione, il trader compulsivo agisce come un giocatore d’azzardo. Si fa guidare dall’istinto e dall’emotività, più che dalle competenze e dalla ragione, non sa mai quando fermarsi, non riconosce i propri limiti e, talvolta, finisce per perdere grosse cifre. Per poi tentare di recuperarle investendo di nuovo: spinto da una sensazione d’invincibilità, il trader corre rischi sempre più grandi e prende decisioni sempre più frettolose aumentando il rischio di nuove perdite. Si innesca così una spirale drammatica che porta l’investitore dilettante o di professione nel tunnel della dipendenza.
Trasferito su Internet, questo processo trova una pericolosa amplificazione: la Rete dà l’illusione di poter tenere sotto controllo i mercati mondiali a qualunque ora del giorno e della notte e alimenta il senso di onnipotenza e controllo dell’investitore. Anche qui, la velocità delle transazioni finanziarie, la solitudine di fronte al computer, e l’estetica delle piattaforme online di investimento, ricche di luci, suoni e colori e strabordanti di informazioni – molto simili a quelle dei giochi online - possono interferire con l’attivazione dei processi cognitivi che consentono la razionalizzazione delle reali possibilità di guadagno e dei rischi connessi alle operazioni sul mercato. Lo “scalping”, ossia l’effettuazione di velocissime operazioni borsistiche via Internet, sfrutta le minime oscillazioni delle quotazioni di titoli e azioni anche nell’arco di pochi minuti, aumentando così il potenziale additivo dell’intera operazione. Il trader dipendente è in molti casi spinto da un mix di emozioni che non riesce a controllare e che tolgono lucidità a pensieri e azioni e portano a fare investimenti sempre più rischiosi.
Gli esperti dicono che si tratta di un fenomeno molto sottostimato, in quanto appannaggio di utenti più colti che ritengono di praticare operazioni finanziarie e di investimento di tipo paraprofessionale (Daniele La Barbera, 2009). A differenza del gioco d’azzardo infatti, il gioco in Borsa è inteso come un’attività legittima che dunque più raramente suscita riprovazione sociale e sensi di colpa nel dipendente. In generale, chi perde molti soldi in Borsa non è considerato un soggetto patologico ma solo un trader che ha fatto un investimento sbagliato. Un aspetto che ritarda nel dipendente la consapevolezza del problema.
Rispetto al profilo del trader patologico, i dati clinici oggi disponibili non consentono di rintracciare caratteristiche distintive: si tratta infatti sia di dilettanti che di professionisti della Borsa, di studenti e di lavoratori impiegati in altri settori. È evidente che coloro che hanno una maggiore percezione dei livelli di rischio a cui vanno incontro, e riescono a mantenere il controllo anche in condizioni di forte stress, sono meno esposti alla compulsione rispetto a quei soggetti che più facilmente restano preda dell’emotività.
Anche le cause che portano all’instaurarsi della dipendenza possono essere variegate e sempre combinano fattori individuali a fattori ambientali. Tra questi ultimi, a scatenare un comportamento irrazionale possono essere eventi inattesi come il crollo improvviso dei listini che manda in fumo un investimento e causa la perdita di ingenti somme di denaro.
Il trader compulsivo tende inizialmente a negare a se stesso il problema e a nascondere a familiari e colleghi le proprie operazioni in borsa e l’entità delle perdite. Quando si accorge di aver bisogno di aiuto e tenta di diminuire o interrompere la giocate allora sperimenta una condizione di astinenza che esita talvolta in depressione: solo un nuovo investimento o una giocata al videopoker possono suscitare nuova eccitazione.
Dipendenza da commercio compulsivo in Rete: lo shopping e le aste online
Per la maggior parte delle persone lo shopping è uno strumento di gratificazione, un modo per darsi piacere facendosi un regalo, per alleviare tensioni e frustrazioni o per risollevare l’umore dopo una giornata storta o una brutta notizia. In questa chiave l’acquisto ha valore di compensazione. In alcuni casi tuttavia il comportamento di acquisto sfugge al controllo dell’individuo e si trasforma in una vera e propria patologia: è la sindrome da Shopping compulsivo, ascrivibile alla categoria dei Disturbi ossessivo-compulsivi, insieme al già citato gioco d’azzardo patologico, al trading patologico, ad alcuni disturbi dell’alimentazione e a tutte quelle patologie che hanno a che fare con una problematica gestione degli impulsi.
Nel disturbo da shopping compulsivo il comportamento di acquisto non punta a produrre benessere ma ad alleviare una tensione interna, uno stato di malessere intollerabile, e funge non da compensazione ma da “sterilizzatore del disagio interiore”. I soggetti affetti da questa dipendenza descrivono un profondo senso di vuoto che attraverso l’ac- quisto si tenta di colmare: il momento dell’azione è catartico e liberatorio e provoca una sensazione immediata di piacere, sollievo, senso di potere e di riempimento, innalzamento dell’autostima. Ma si tratta di una soddisfazione fittizia e transitoria, che presto lascia spazio al senso di colpa e ad uno stato di tensione crescente. Solo un nuovo acquisto potrà sciogliere questa tensione, ma l’effetto sarà di nuovo di breve durata. Si innesca così un circolo vizioso da cui il dipendente non riesce ad uscire e che può produrre gravi contraccolpi nella sfera relazionale, familiare e finanziaria dell’individuo. Non sono rari casi di indebitamento e bancarotta, o di persone che arrivano a rubare per ottenere denaro da spendere.
Già nel 1994 S.L. McElroy indicava i criteri diagnostici per riconoscere il disturbo da shopping compulsivo:
• frequente preoccupazione o impulso a comprare, esperiti come irresistibili, intrusivi o insensati
• comprare frequentemente al di sopra delle proprie possibilità, spesso oggetti inutili e di cui non si ha reale bisogno, per un tempo più lungo di quello stabilito
• l’atto del comprare causa stress marcato e interferisce in maniera significativa con il funzionamento sociale e lavorativo, determinando problemi finanziari (debiti o bancarotta)
• il comprare in maniera eccessiva non si presenta esclusivamente durante i periodi di mania o ipomania.
Alcune ricerche (Lejoyeux et al., 2002) sui pazienti affetti da shopping compulsivo hanno poi mostrato che tale disturbo spesso si presenta in associazione, o co-occorrenza, ad altre patologie anch’esse caratterizzate da una inefficace gestione degli impulsi, come il gioco d’azzardo o l’abuso di sostanze. Secondo alcuni (Black, 1999) infatti i dipendenti dallo shopping ereditano una sorta di vulnerabilità ai comportamenti impulsivi, per cui se non viene esercitato lo shopping, l’atteggiamento impulsivo troverà altre vie per manifestarsi. A sostegno di questa ipotesi alcune ricerche descrivono pazienti che migrano da una forma di dipendenza all’altra.
Anche nel caso dello Shopping compulsivo la piattaforma online si rivela un potente amplificatore del disagio: la capacità del web di offrire una risposta rapida e illimitata a ogni richiesta rende particolarmente vulnerabili i soggetti incapaci di una sana gestione degli impulsi.
Sono le caratteristiche specifiche del commercio online a favorire l’instaurarsi della dipendenza:
• la rapidità dell’acquisto on line (basta un click!)
• la possibilità di reperire in Internet oggetti rari, inusuali o che si trovano dall’altra parte del mondo
• l’eliminazione tramite la Rete dell’intermediazione umana
• l’utilizzo delle carte di credito o di metodi di pagamento alternativi come il pay pal, che aumenta la facilità di acquisto on line e rinforza la condotta di tipo compulsivo
• la possibilità di partecipare ad aste online (come quelle che hanno luogo su e-bay) che aumenta il rischio di sviluppare un comportamento di abuso
• la comodità di acquistare e ricevere a casa la merce
Dipendenza dal controllo delle email
La posta elettronica è considerata oggi come il più diffuso mezzo di comunicazione dopo il telefono, uno strumento indispensabile per chi lavora ma anche un “luogo” per coltivare relazioni interpersonali. È stato invero il primo “regalo” che Internet ha portato nelle case e negli uffici a tutte le latitudini, e che ad oggi resta il più utilizzato.
Tuttavia, come accade per molte altre applicazioni disponibili su Internet, anche l’utilizzo della posta elettronica può trasformarsi in un comportamento patologico caratterizzato dalla dipendenza: il soggetto è indotto al controllo ossessivo delle email e trascorre anche fino a dieci ore consecutive davanti al monitor del computer con la speranza di vedere apparire all’improvviso sullo schermo l’indicazione di una “new mail” in arrivo. Non di rado queste persone sono portate ad aprire numerose caselle di posta elettronica, decine a volte, distinguendole a seconda dell’uso e della platea dei contatti: una per gli amici, una per ogni lavoro, una per le persone conosciute sui social, una per le newsletter, etc…e ad aggiornare continuamente lo status della casella in arrivo. Come accade per tutti gli altri tipi di comunicazione mediata dalla tecnologia informatica, anche qui si tratta di una comunicazione priva dei fattori emotivi e dei segnali non verbali che sostanziano la comunicazione reale: una comunicazione “parziale”, incompleta e dunque falsata, che tuttavia può offrire al comunicatore, se lo desidera, una protezione da qualunque investimento emotivo.
Rispetto al profilo della persona dipendente dalle email, si tratta per lo più uomini di età compresa fra i 25 e i 40 anni, con carenze comunicative, problemi di emarginazione o difficoltà familiari, che lavorano quasi sempre in un ambiente informatizzato, magari con turni di notte, o che vivono in una situazione di isolamento geografico. In questi casi, molto spesso la dipendenza costituisce un comportamento di evitamento, grazie al quale il soggetto si rifugia nella Rete per non affrontare le sue problematiche esistenziali.
Una problematica molto più diffusa di ciò che si potrebbe immaginare. In uno studio condotto da Symantec nel 2006 – rilanciato dal quo- tidiano Repubblica, nella sua versione online - il 75% degli intervistati dichiara di non poter fare a meno dell’e-mail, e uno su cinque rientra nella categoria degli utenti “dipendenti”, che controllano l’e-mail in maniera compulsiva e si abbandonano al panico se non riescono ad ac- cedervi. L’indagine individua quattro categorie di utenti: i “disciplinati” (49% degli intervistati), che hanno nei confronti della posta elettronica un atteggiamento rilassato; i “dipendenti totali” (21%), che con- fessano di controllare l’e-mail in maniera compulsiva e sono connessi a Internet in media 2,6 ore al giorno; i “tecnofobici” (10%), che all’e-mail preferiscono la posta tradizionale e la comunicazione verbale, e, infine, i “bombardati” (6%), che subiscono l’e-mail e hanno difficoltà a farvi fronte. Inoltre il 54% degli intervistati controlla l’e-mail prima delle 9 del mattino (alcuni già alle 6) e la maggior parte effettua l’ultima connessione della giornata intorno alle 17 (ma molti arrivano an- che a mezzanotte). Il 72% utilizza la posta elettronica anche in situazioni non lavorative, il 40% in vacanza e il 38% durante le assenze per malattia.
Come per le altre web-addiction anche quella da email ha un impatto doloroso sulla famiglia. Il dipendente tende ad alienarsi dal resto del mondo e dalla realtà, manca alle sue responsabilità di genitore, coniuge e amico, è irascibile e aggressivo se disturbato nelle sue sessioni al computer.
Sovraccarico cognitivo: l’Information Overload

La navigazione sui siti web offre un’accessibilità senza limiti a informazioni di ogni tipo, tanto che alcune persone finiscono per trascorrere molto tempo nella ricerca e organizzazione di questo materiale e si ritrovano intrappolate in vere e proprie abbuffate di notizie. Anche in questo caso il comportamento di ricerca può trasformarsi in una dipendenza: i clinici la chiamano Information Overload, ovvero sovraccarico cognitivo per eccesso di informazioni.
Accade che alcune persone si convincano che per prendere al meglio le loro decisioni e per acquisire prestigio sociale sia necessario essere sempre aggiornati su ciò che accade nel mondo e/o in contesti specifici. Spinti da questo convincimento, tali soggetti si cimentano nella ricerca e nell’organizzazione del maggior quantitativo possibile di informazioni, senza considerare che, in realtà, il sovraccarico di informazioni impedisce la corretta selezione e il buon uso delle stesse. Pertanto la diagnosi di Information Overload si basa sulla presenza di questi fattori:
• Bisogno di passare molto tempo in Rete per trovare notizie, aggiornamenti, o altre informazioni;
• tentativi falliti di poter controllare, ridurre o interrompere l’attività di ricerca;
• mantenimento di questa attività nonostante vengano notati problemi sociali, familiari ed economici causati dall’eccessiva ricerca di informazioni.
Verso la dipendenza
Tra coloro che si occupano di patologie web mediate c’è sostanziale consenso circa il fatto che l’utilizzo patologico di Internet sia l’esito di un percorso dove fattori personali si sommano a fattori ambientali. Illustriamo qui alcuni dei modelli più accreditati.
Il modello cognitivo-comportamentale elaborato da Davis (1999) de- scrive lo sviluppo di un uso patologico di Internet, sia specifico che generalizzato, come frutto di cognizioni problematiche dell’individuo, che possono combinarsi e trovare amplificazione in una condizione di isolamento o mancanza di sostegno sociale. Tali cognizioni disadattive sono a loro volta il prodotto della combinazione fra stimoli ambientali/situazionali, stimoli che provengono dall’uso di Internet ed eventuali psicopatologie pregresse dell’individuo (come ad esempio l’ansia sociale).
Anna Fata (2002) descrive un percorso verso la “Retomania” che muove da una fase iniziale definita come “tossicofilica” e caratterizzata da un incremento del tempo di permanenza in Rete, sensazione di malessere quando si è off-line, idee e fantasie ricorrenti su Internet in condizione off-line, partecipazione intensa a chat, forum e gruppi di discussione o partecipazione passiva agli stessi con funzione di m